Affrontiamo il tema della dismissione: che sia forzata o di spontanea scelta, resta un momento molto complesso.
Spesso mi sento dire, “lo vorrei vendere a un museo”, i musei in Italia comprano, però comprano poco, in maniera molto selezionata e ovviamente a dei prezzi abbastanza contenuti, perché non comprano sul mercato internazionale ed è anche raro che partecipino a una asta. Il discorso di vendere a un’istituzione pubblica è dunque molto complicato ed è valido solo per un numero ridotto di opere.
Vendere a un privato comporta delle modalità estremamente complesse e anche rischiose perché ci sono delle garanzie che come venditore devo fornire, ad esempio sulla lecita provenienza del bene, oppure sulla attribuzione e sulla sua autenticità. La responsabilità sulla descrizione del bene ricade sul venditore, in caso di vendita da privato e privato. Se invece la vendita avviene a un commerciante o a una casa d’aste, sarà il professionista a doversi far carico di verificare tutti i punti elencati. L’acquirente è un professionista per cui deve avere gli strumenti e l’esperienza per sapere cosa e come verificare.
Un'opzione per la vendita è dunque vendere tramite una casa d’aste. Dopo aver esaminato l’oggetto la casa d’aste propone una stima minima e una massima: la casa d’aste non è mai molto preoccupata a dare una stima precisa, sa che è il mercato che poi fa il prezzo: i cataloghi infatti finiscono in migliaia di mani ed è molto probabile che, se la stima è troppo conservativa, più di un acquirente se ne accorgerà e di conseguenza il prezzo salirà da solo. Oggigiorno la maggior parte delle case d’asta non pubblica più il catalogo cartaceo, esiste solo la versione online, che raggiunge un numero di potenziali clienti molto più alto di prima. Dobbiamo quindi tenere a mente che l’asta è sempre al rialzo, procede per alzata di mano e ogni volta si cresce di circa il 10%, non esiste la possibilità di offrire di meno. Se durante l’asta non c’è nessuna mano alzata, il lotto resta invenduto e si passa al lotto successivo. Nel mondo anglosassone si è tenuti a comunicare alla sala che il lotto è rimasto invenduto e va pronunciato il termine “pass”. In Italia non vi è questo obbligo, spesso i battitori annunciano “passiamo al prossimo lotto”, ma non sono obbligati a farlo.
Conseguentemente il lotto torna dal venditore e potrebbero esserci delle spese da pagare, ad esempio trasporto o assicurazione, ma dipenderà dagli accordi precedenti con la casa d’aste. Come guadagna quindi una casa d’aste? C’è la commissione dalla parte del venditore e poi per l’acquirente c’è il premium. La commissione del venditore è a scalare e in alcuni casi puo’ essere negoziabile, solitamente più l’oggetto vale e più la commissione è negoziabile, più sono di scarso valore e delicati gli oggetti e più la commissione è alta e non negoziabile. Immaginiamo infatti che vendere una collezione di 200 vetri dove ognuno vale 20 euro, sia molto più impegnativo che vendere un vetro Martinuzzi a 20.000 euro. Lo spazio, la delicatezza, la mano d’opera sono tutti costi fissi che la casa d’aste cerca di non avere. L’acquirente paga un premium che non è negoziabile ed è così perché alla base del funzionamento dell’asta c’è il principio che in sala tutti debbano avere le stesse identiche possibilità di acquisto. Come per la commissione, anche il premium è a scalare, agevolando sempre i lotti più cari.
Altra possibilità di way out è la vendita a un commerciante: potete prevedere un mandato in conto vendita, con l’opera che resta vostra fino alla vendita a un prezzo pattuito. Oppure una semplice vendita diretta al commerciante.
Il diritto di seguito riguarda esclusivamente le opere di artisti morti da meno di 70 anni ed è una maniera di riconoscere una percentuale del valore dei passaggi successivi delle opere all’artista, se ancora vivo o agli eredi, è come anche per la musica (è sempre la SIAE che lo raccoglie) c’è un tetto fino a 12.500 euro. Non tutti gli artisti sono tutelati dalla SIAE, è una tutela prettamente europea, e non è presente per esempio in America. Prendiamo il caso degli artisti afroamericani che negli anni più recenti hanno avuto dei grandi boom molto rapidi. I lavori di questi artisti sono stati comprati in galleria a cifre intorno ai 5.000$ e dopo un paio d’anni sono passati in asta e venduti a 500.000$. In casi come questi l’artista non beneficia dell’incremento di valore, anzi è viene penalizzato da questa crescita troppo speculativa.
Altra questione da considerare in Italia, non solo per il way out, è la normativa relativa alla movimentazione delle opere d’arte: ogni opera che abbia più di 70 anni necessita di una licenza di esportazione per lasciare il territorio italiano. Se è tra i 50 e i 70 anni in casi eccezionali può esercitarsi la licenza di esportazione, ed esercitare il diritto di impedire l’esportazione. La questione è estremamente complessa, ma bisogna essere consapevoli che la licenza o l’assenza della stessa, oppure il vincolo di notifica, comportano grandi differenze nel valore economico.
Esistono anche degli strumenti specifici per non alienare una collezione e tenerla nella sua interezza: Il Trust e la Fondazione, ad esempio. Il Trust ha una scadenza e garantisce la proprietà, che non viene trasmessa, nella Fondazione, invece, la proprietà delle opere viene trasmessa alla Fondazione e non può più essere restituita.
Vanno qui citate anche le principali modalità di valorizzazione delle opere: il comodato d’uso e la donazione. Il primo strumento è un prestito, con il mantenimento della proprietà in capo al comodante mentre la donazione, ovviamente, prevede la spoliazione della proprietà. Vorrei sfatare il mito che comodati e donazioni siano molto semplici da eseguire: in Italia i musei principali ricevono proposte di comodati o donazione molto frequentemente, ma esistono dei processi di selezione stringenti per evitare di ingolfare i magazzini di opere non qualificate.